| 002..::.16.02.2013   
					 Nella foto, la soprano, Luciana Distante.Proseguiamo questo «percorso musicale» a 
					cura di Luciana Distante, soprano. E' una iniziativa 
					dell'Assodolab riservata a coloro che amano la "buona 
					musica" e gli "autori del passato" che ci accompagnerà per tutto l'anno 2013 su 
					queste pagine web del nostro Supplemento di informazione 
					on-line 
					www.lasestaprovinciapugliese.it  La prossima uscita sarà il prossimo sabato. La Redazione Prof. Agostino Del Buono      Regione Puglia, LECCE..:: Dopo Nabucco (1842) e per quasi 
					dieci anni Verdi scrisse mediamente un’opera all’anno. 
					L’anno succesivo Verdi propone, nello stesso teatro, I 
					Lombardi alla prima crociata (1843): opera ricca di grandi 
					scene corali, un’epopea il cui tema sarà interpretato, in un 
					futuro non lontano, in chiave patriottico-risorgimentale. La 
					nuova opera s’impone rapidamente nei teatri in virtù di una 
					musica incalzante, dai ritmi serrati e quasi brutali: 
					caratteristica ricorrenti nelle opere giovanili di Verdi. 
					Oltre ai grandi momenti corali e alle rudi scene di 
					violenza, nei Lombardi si trovano melodie accattivanti 
					profuse a piene mani; e Verdi si dimostra capace anche di 
					pagine delicate come la preghiera di Giselda. Le opere giovanili, I Lombardi alla prima crociata(1843), La 
					battaglia di Legnano (1849), I due Foscari (1844),Giovanna 
					d’Arco (1845), Alzira(1845), Attila(1846), Il corsaro 
					(1848),I masnadieri(1847),Ernani(1844) e Macbeth (1847), ad 
					eccezione delle due ultime, pur presentando talvolta al loro 
					interno pagine di acceso lirismo e una lucida visione dei 
					meccanismi e delle dinamiche teatrali, non danno 
					testimonianza di un’evoluzione del maestro verso forme 
					musicali e drammaturgiche più personali e si adagiano su 
					schemi già sperimentati in passato e legati alla tradizione 
					melodica italiana precedente. Furono creazioni generalmente 
					di successo ma composte spesso su commissione, con ritmi di 
					lavoro talvolta massacranti e non sempre sorrette da una 
					genuina ispirazione. Per tale ragione Verdi definì questo 
					periodo della propria vita “gli anni di galera”. Fra la 
					produzione verdiana dell’epoca spiccano senz’altro, per 
					forza drammaturgica e fascino melodico due opere, Ernanie 
					Macbeth.
 Tratta dall’omonimo dramma di Victor Hugo, Ernani fu 
					concepito da Verdi fin dall’estate del 1843. Musicato 
					nell’inverno successivo su libretto di Francesco Maria Piave 
					, venne presentato al pubblico veneziano in marzo. La 
					vicenda, ricca di colpi di scena e incentrata su un triplice 
					amore, diede la possibilità a Verdi di approfondire la 
					caratterizzazione di alcuni personaggi dal punto di vista 
					drammaturgico e di iniziare ad affrancarsi dall’ingombrante 
					influsso dei grandi compositori italiani dei primi decenni 
					dell’Ottocento: Gioachino Rossini, Vincenzo Bellini e 
					Gaetano Donizetti. Verdi dimostra di saper “costruire” 
					personaggi tutt’altro che schematici, grazie a una musica 
					aderente ai loro mutamenti psicologici e alle loro passioni. 
					Rivela un sicuro istinto teatrale che si evidenzierà sempre 
					più nel corso di questi anni di sperimentazione.
 Un discorso a sé richiede Macbeth, opera assai più 
					complessa, in cui la fantasia verdiana, stimolata dal testo 
					shakespeariano, giunge a esiti di eccezionale rilievo già 
					nella prima versione del lavoro, in seguito rivisto e in 
					parte modificato per Parigi (1865). Macbeth, presentata al 
					Teatro La Pergola di Firenze nel 1847, è con ogni 
					probabilità il capolavoro giovanile di Verdi. Musicata su 
					libretto di Francesco Maria Piave, si ispira alla tragedia 
					omonima di William Shakespeare. L’opera, dalle potenti 
					connotazioni drammatiche, si differenzia dalle precedenti 
					per un maggiore approfondimento psicologico dei protagonisti 
					della tragedia (Macbeth e Lady Macbeth), preannunciando, col 
					suo debordante lirismo, la trilogia popolare di un Verdi 
					entrato nella sua piena maturità espressiva.
 Vale la pena, a questo punto, aprire una parentesi 
					sull’influsso che i gli scrittori europei ebbero su Giuseppe 
					Verdi.
 Il giovane compositore esordì attingendo dalla grande 
					storia, dal mito e dalla Bibbia (Oberto, Attila, 
					Nabuccodonosor, I Lombardi alla prima crociata); 
					successivamente si rivolse ai classici del romanticismo 
					europeo (basti pensare a Dumas, Hugo, Byron) e, soprattutto 
					a grandi autori come Schiller e Shakespeare.
 La sintonia con Schiller, pur fondata sull’ispirazione di 
					ben noti melodrammi (Giovanna d’Arco, Luisa Miller, I 
					masnadieri, Don Carlo) ma legata a valori etici - quali la 
					ragion di stato, il senso dell’onore e del dovere - risulta 
					meno esplicita rispetto a quella dirompente stabilita con 
					Shakespeare fin dalla giovinezza e coltivata per tutta la 
					vita. Specchio delle passioni e di tutte le umane 
					contraddizioni, il drammaturgo di Stratford diventa, in 
					realtà, il simbolo dell’età romantica e, come tale, la 
					dominante della dialettica musicale verdiana.
 La verità dell’invenzione drammatica di Verdi non stava 
					nell’imitazione “veristica” della realtà ma nel groviglio 
					delle passioni umane tradotte sulla scena nel linguaggio 
					universale della musica. In questo difficile gioco risiede 
					anche la ragione del profondo legame con Shakespeare . Il 
					poeta rappresentò per Verdi la scoperta di una nuova 
					concezione drammaturgica incentrata sulla rappresentazione 
					della condizione umana e delle sue problematiche; la 
					conoscenza di un linguaggio teatrale libero da ogni regola 
					accademica, la mescolanza dei generi, il valore della 
					«parola scenica», lo scardinamento della forma «chiusa».
 Nel Macbeth di Shakespeare (noto nella traduzione italiana 
					di Carlo Rusconi del 1838), Verdi riconosce una “delle più 
					grandi creazioni umane» e, quindi, sollecita Francesco Maria 
					Piave di fare almeno una cosa fuori dal comune. L’ “opera 
					indicherà - assicura il librettista –“nuove tendenze alla 
					nostra musica e aprira nuove strade ai maestri presenti ed 
					avvenire ”.Del resto già nel primo accenno a Macbeth (in una 
					lettera all’impresario fiorentino Lanari, del 17 maggio 
					1846), il maestro annota a proposito del soggetto: “Non è né 
					politico, né religioso: è fantastico”. Per tradurre tale 
					grandezza, Verdi fa del realismo il punto della sua 
					drammaturgia musicale con una carica innovativa capace di 
					audacie mai più superate. Anche i cantanti vengono chiamati 
					a un ruolo inedito. Non sono solo voci, ma interpreti e 
					attori; col gesto, la sensibilità e l’intelligenza musicale, 
					con la consapevolezza di non essere semplici strumenti, ma 
					uomini che cantano il dramma di altri uomini. Da un lato 
					riesce così a costruire, in contrasto con il gusto del 
					tempo, un perfetto equilibrio fra parola e musica, la ben 
					nota “parola scenica”, dall’altro, dando spazio primario al 
					«cattivo», fa propria la nouvelle vogue romantica.
 La novità verdiana corrisponde a quella corrente che nella 
					seconda metà dell’Ottocento si andava delineando come 
					“estetica del brutto”, degli emarginati dei diseredati dal 
					punto di vista morale e fisico: è, in sintesi, il 
					naturalismo di Zola, il verismo di Verga, o il realismo di 
					Balzac. L’estetica del brutto, dell’emarginato, iniziata con 
					Macbeth, continua con la cosidetta «trilogia popolare» in 
					cui, i veri protagonisti non sono il Duca, Eleonora o 
					Alfredo, vale a dire i personaggi di rango, bensì Rigoletto, 
					Azucena e Violetta, ossia i personaggi inferiori e messi al 
					bando da un lato per il loro ambiguo passato, dall’altro 
					perché, tentando di riscattarsi con una passione vera, si 
					oppongono all’ordine gerarchico.
 Per il Macbeth, Verdi scrisse che voleva una Lady «brutta e 
					cattiva», che non «cantasse» in senso tradizionale, ma 
					avesse «una voce aspra, soffocata, cupa», che «avesse del 
					diabolico», richiesta, quest’ultima, impensabile pochi anni 
					prima ai tempi di Rossini o anche di Bellini. Altrettanto 
					vale per il protagonista maschile voluto soprattutto per 
					l’intelligenza interpretativa, per la straordinaria 
					efficacia del canto declamato nonché per la figura poco 
					attraente.
 Con Macbeth prendono avvio anche altre novità:
 - la triade «amorosa» - tenore, soprano, baritono - viene 
					sostituita dal baritono, soprano/contralto, basso;
 - gli «abbellimenti» vengono trasformati in «canto 
					declamato»;
 - il plot, come azione teatrale, perde la sua primaria 
					importanza a vantaggio dell’«azione interiore», dello studio 
					psicologico dei personaggi (per qualcosa di simile nel 
					teatro di prosa bisognerà attendere Pirandello);
 - l’assenza dell’intreccio amoroso va a favore del confronto 
					straziato, ma lucidissimo, del protagonista con la propria 
					coscienza dal momento dell’esaltazione illusoria a quello 
					della certezza tragica della disfatta, annunziato dalle 
					streghe. Incarnazione del Male e, quindi, centro nodale del 
					dramma, esse rappresentano «un personaggio».
 In Verdi c’è un’attenzione maniacale per ogni aspetto del 
					dramma, dalla recitazione, ai costumi, alla gestualità, 
					perché tutto doveva concorrere alla valorizzazione della 
					«parola scenica», determinata dalla essenzialità. È quanto 
					apprendiamo dalle numerose lettere inviate al librettista 
					Piave con ossessiva insistenza: “Ti raccomando i versi [...] 
					quanto più saranno brevi tanto più troverai effetto [...] 
					per concludere [...] non trascurarmi questo Macbeth [...] 
					brevità e sublimità”; e ancora: “Abbia sempre in mente di 
					dir poche parole [...] poche parole [...] ti ripeto poche 
					parole [...] stile conciso! Hai capito?”, o al primo 
					interprete di Macbeth, Felice Varesi: «io non cesserò mai di 
					raccomandarti di studiare bene la posizione e le parole: la 
					musica viene da sé. Insomma, ho piacere che servi meglio il 
					poeta del maestro” .
 Nel 1849, venne presentata al pubblico napoletano Luisa 
					Miller, opera importante per l’evoluzione dello stile 
					musicale e della drammaturgia verdiana. L’orchestrazione si 
					fa più raffinata, il recitativo più incisivo e il 
					compositore scava nella psiche della protagonista come mai 
					aveva fatto prima di allora. Anche nella creazione 
					successiva, Stiffelio (Trieste1850), Verdi portò avanti quel 
					lavoro di caratterizzazione psicologica del personaggio 
					centrale, iniziato con Macbeth e proseguito in Luisa Miller. 
					L’opera presentava però alcune debolezze strutturali, dovute 
					in parte ai drastici tagli operati dalla censura austriaca, 
					che non le permisero di imporsi al grande pubblico italiano 
					ed europeo. Ancor oggi Stiffelio è rappresentato raramente.
 Queste ultime due opere sono di grande interesse e segnano 
					un momento di transizione che porterà alla nascita della 
					cosiddetta “trilogia popolare”.
 
 Luciana Distante
     
					   
					..:: 
					www.laformazionemusicale.it 
					       |