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					 011..:: 15.12.2013 
					  
					
					  
					Nella foto, la professoressa Luciana Distante.
					  
					Lecce..:: Nel marzo del 1920, Simoni propose a Puccini di 
					musicare la fiaba teatrale di Gozzi (1) Turandot. Già subito 
					dopo averla letta Puccini ebbe ben chiare le modifiche da 
					apportare: ridurre il numero di atti, alleggerirlo, esaltare 
					la passione di Turandot repressa per tanti anni 
					dall’orgoglio. Puccini non lesse la fiaba originale di 
					Gozzi, ma dovette lavorare su una traduzione di una versione 
					teatrale tedesca fornitagli da Andrea Maffei. Questa 
					versione era il frutto di numerose rielaborazioni, compiute 
					da Schiller e Goethe che ad ogni spettacolo si dilettavano a 
					modificare il testo e la soluzione degli enigmi. Per questo 
					spettacolo, Weber compose delle musiche di scena nel 1809 
					(una ouverture più sette brani orchestrali). Lo stesso 
					soggetto originario del Gozzi fu ripreso più tardi, nella 
					seconda metà dell’Ottocento, per il teatro da Giacosa con il 
					titolo Il Trionfo d’amore mentre Bazzini (che era stato 
					maestro di conservatorio di Puccini) ne fece l’opera Turanda. 
					L’argomento interessò nel secolo successivo, Busoni, che nel 
					1904 scrisse una suite in otto movimenti. Tali musiche 
					vennero riadattate e integrate con altri due pezzi nel 1911 
					a musiche di scena per quello spettacolo di Berlino di cui 
					era giunta notizia a Puccini, e infine rielaborate in 
					un’opera nella forma del singspiel di cui egli stesso 
					scrisse il libretto dal titolo Turandot. Per la stesura del 
					libretto chiamò Adami, affiancandogli Simoni. Nel 1921 
					Puccini ebbe dei dubbi sulla struttura in tre atti e per 
					qualche mese progettò una versione in due atti, ma alla fine 
					ritornò alla soluzione in tre atti. Alla metà del 1922 
					comunque il libretto era terminato, sebbene Puccini non 
					fosse del tutto convinto della versione del duetto finale. 
					Il punto di svolta dell’opera doveva essere quello che lui 
					definiva lo “sgelamento” di Turandot: il primo passo sarebbe 
					stato la morte di Liù, mentre ciò che l’avrebbe fatta cedere 
					definitivamente sarebbe stato il bacio passionale di Calaf 
					nel duetto finale, rielaborato diverse volte prima della 
					versione definitiva. La composizione dell’opera subì diverse 
					interruzioni, sia dovute alle perplessità di Puccini 
					sull’evoluzione drammaturgica, sia dovute alla malattia che 
					comincio a manifestarsi dalla fine del 1923. Nell’agosto del 
					1924, ingaggiò Toscanini per la prima alla Scala fissata ad 
					aprile del 1925.  
					Gli aspetti che colpirono maggiormente la fantasia di 
					Puccini furono il conflitto fra i sessi maschile/femminile, 
					e il tono maggiormente patetico e umano. (2)  
					L'ultimo quinquennio della vita di Puccini, interamente 
					dedicato a Turandot, non gli bastò per finire il lavoro: 
					Puccini fu stroncato da un attacco cardiaco - conseguenza di 
					una disperata operazione alla gola per salvarlo da un cancro 
					- nel mattino del 29 novembre 1924, dopo aver completato 
					l'orchestrazione della prima scena del terzo atto. Aveva 
					fatto in tempo a dipingere in modo indimenticabile il 
					sacrificio per amore della schiava Liù, ma gli mancava 
					proprio lo scorcio decisivo, dove l'amore fra la principessa 
					cinese e il principe tartaro Calaf avrebbe dovuto trionfare. 
					L'analisi dell'ultima partitura svela la sua piena 
					coordinazione sulla base di numerosi parametri musicali, che 
					le assicurano un grado altissimo di coesione. Il capolavoro 
					incompiuto è l'esperimento più ambizioso che mai un 
					compositore italiano abbia tentato, prima della svolta 
					‘radicale' del secondo dopoguerra. Non esiste un'opera 
					italiana, prima di Turandot, dove si tenti di sviluppare un 
					progetto così organico d'interazione fra musica e scena. 
					Puccini partì dall'idea di ricreare il clima favoloso della 
					Cina antichissima e volle unire strettamente l'elemento 
					orientale al fiabesco mediante una ‘tinta' musicale 
					peculiare. Importa assai poco che molte cineserie melodiche 
					le abbia colte al volo da un carillon: non ebbe pretesa di 
					vera autenticità, né ambizioni filologiche, solo l'intento 
					d'imporre lo straniamento dalle convenzioni vigenti mediante 
					l'originalità dell'invenzione. Quasi un personaggio fra le 
					Dramatis personæ, l'orchestra, trattata con mano da orafo 
					anche nei momenti più barbarici, determina l'atmosfera passo 
					dopo passo. Puccini si espresse al vertice delle sue 
					capacità, e ai massimi livelli possibili nell'Europa di 
					allora, inventando effetti coloristici violenti e preziosi 
					al tempo stesso. L'immenso apparato musicale è legato a 
					doppio filo alle esigenze dello spettacolo nel suo 
					complesso. Numerose volte aveva ideato le proporzioni 
					musicali della drammaturgia, e vi aveva fatto corrispondere 
					una dimensione scenica, tanto che in ogni sua opera c'è 
					sempre qualche scorcio grandioso in cui le ragioni 
					dell'occhio instaurano un rapporto di scambio con quelle 
					dell'orecchio. Per Turandot aveva pensato un progetto 
					speciale: l'unità aristotelica di tempo, ingrediente in sé 
					tradizionale, diviene il pretesto per tracciare un percorso 
					nell'arco dei tre atti in cui proprio lo scorrere delle ore 
					assurge a protagonista del dramma acquisendo un valore 
					emblematico. Lo "sgelamento" della crudele Principessa, nodo 
					su cui Puccini metteva in gioco la credibilità del finale, è 
					posto al culmine di un simbolico avvicendarsi di colori, 
					dato da luci costume e scene, che il timbro cangiante 
					asseconda. Dal punto di vista formale le macrostrutture di 
					Turandot si mostrano ambivalenti. In particolare il primo 
					atto, vero gioiello di coesione, rivela una struttura di 
					foggia sinfonica in quattro movimenti, con un'introduzione 
					lenta e due scherzi (gli episodi dei tre ministri), ma può 
					essere letto secondo l'ottica della cosiddetta «solita 
					forma» del ‘numero chiuso' («1. ‘Tempo d'attacco' 2. Adagio 
					3. ‘Tempo di mezzo' 4. Cabaletta», ). Rimane il dato di 
					fatto che il finale prevede due arie e un ampio concertato 
					(sestetto con coro); ma anche questa, se pensiamo al finale 
					primo e a quello centrale di Bohème, non è una novità 
					assoluta, e altre volte è facile ritrovare con chiarezza lo 
					scheletro del ‘numero tipo' ottocentesco (come nella pagine 
					conclusive Fanciulla). D'altro canto, sia nell'una che 
					nell'altra ipotesi, si deve tener conto che Puccini impiega 
					temi musicali nel corso dell'intera opera, sia pure in minor 
					numero rispetto al solito, che perlopiù riappaiono in forma 
					di reminiscenza - tranne il violento motto d'apertura, che 
					viene trattato come un Leitmotiv, sulla falsariga di Wagner, 
					e come tale percorre la partitura fino alla morte di Liù. 
					Sembra dunque più legittimo analizzare l'atto primo come 
					costruito per giustapposizione di episodi, ciascuno con un 
					senso proprio, e l'intera partitura come il prodotto di un 
					metodo compositivo che narra per voluta frammentarietà, ed è 
					questo un tocco di vera modernità, che si aggiunge a tutte 
					le altre conquiste della partitura. Questa chiave di lettura 
					permette inoltre di superare la fittizia contrapposizione 
					fra struttura sinfonica e a numeri, e potrebbe aprire una 
					nuova e più fertile fase d'indagine sull'ultimo capolavoro 
					di Puccini. Il finale incompiuto di Turandot è viziato 
					dall'insufficiente realizzazione di Franco Alfano, che portò 
					a termine un'operazione necessaria a che l'opera potesse 
					circolare, ma non fu in grado di sviluppare degnamente i 
					ventitré fogli di appunti lasciati da Puccini sul comodino 
					della clinica di Bruxelles, su cui aveva lavorato quasi fino 
					all'ultimo. Ma v'è da riconoscere che l'impresa di un 
					completamento sarebbe stata ardua per chiunque, e che il 
					finale fu comunque un problema anche per lo stesso Puccini 
					che già prima di finire la composizione aveva iniziato a 
					strumentare, ed era pratica davvero insolita rispetto alle 
					sue abitudini. Probabilmente avvertiva la necessità di 
					completare e rifinire quella che legittimamente riteneva la 
					sua musica migliore, per poggiare la conclusione su un forte 
					piedistallo, tale da condizionare l'articolazione del 
					problematico duetto. Puccini stava dunque tentando 
					un'impresa titanica, proiettandosi verso un futuro che era e 
					sarebbe sempre stato la sua mèta, purtroppo non completò il 
					suo ultimo capolavoro, ma se fosse vissuto avrebbe lavorato 
					per eliminare ogni incongruenza, così com'era accaduto altre 
					volte. Ci rimane uno splendido ‘frammento' inconsuetamente 
					esteso, prodotto da un artista in piena forma intellettuale 
					e creativa. 
					Le caratteristiche musicali generali di Turandot rientrano 
					nel cosiddetto «filone borghese» dell’opera verista (tra le 
					altre Manon Lescaut, Tosca e Madama Butterfly) 
					caratterizzata dalla tensione passionale esasperata fino 
					alla concitazione, e da un tono sentimentale-languido. Le 
					melodie sono costruite su scale che procedono di grado o con 
					piccoli intervalli alternandosi a bruschi cambiamenti per 
					esaltare la sensualità della situazione o per innalzare il 
					sentimentalismo. Altra caratteristica pucciniana è la 
					drammaticità, che prelude alla morte o alla catastrofe. 
					Infine è da notare come le frasi di tipo discorsivo, che 
					nell’opera romantica erano realizzate attraverso i 
					recitativi, in Puccini assumono la forma di brevi frammenti 
					melodici, nel tentativo del musicista di conservare 
					l’intonazione della frase parlata senza dover rinunciare 
					alla melodia. In buca ritroviamo tutte le tipologie di 
					strumenti classici più un certo numero di percussioni e 
					idiofoni utili a dare ritmi di sapore orientaleggiante: 
					campane tubolari, celesta, glockenspiel, xilofono, fino al 
					gong cinese e al tam-tam. Anche l’orchestra sul palco (ora 
					in scena ora dietro le quinte) è ricca: oltre a tromboni, 
					trombe, tamburo di legno e gong, e perfino due sassofoni 
					contralto, un’assoluta novità nel teatro d’opera italiano.
					 
					La vocalità di Turandot si concentra per la maggior parte 
					nel registro acuto e intorno alle note del secondo passaggio 
					di registro. La parte richiede un soprano lirico-spinto o 
					drammatico per la potenza con cui la cantante deve far 
					fronte alle grandi sonorità orchestrali, specialmente nel 
					secondo atto. Controbilancia l’impegno vocale, la staticità 
					coreografica del personaggio. Il tipo di tenore adatto per 
					Calaf è senz’altro un tenore spinto: infatti, la zona ove si 
					articolano la maggior parte delle sue melodie è nel registro 
					medio-acuto insistendo maggiormente nell’acuto con la 
					relativa zona di passaggio, che richiede molto impegno. 
					La tessitura della parte di Liù rimane in prevalenza nel 
					registro medio-acuto, come Turandot, ma si differenzia da 
					questa per il tipo di canto che deve essere molto legato, 
					dolce e senza forzature. Infine l’aspetto tecnico che merita 
					di essere annotato è il finale dell’aria «Signore ascolta» 
					di Liù dove si richiede la capacità di saper controllare gli 
					acuti in «pianissimo». 
					Per Timur è assegnata la voce di basso, ma dato l’ambito 
					prevalente nelle regioni acute, la scelta è più timbrica che 
					tecnica. 
					La storia di Turandot e Calaf è ambientata in una Pechino 
					fiabesca. Tuttavia Puccini per rendere efficacemente questa 
					atmosfera orientale-favolistica, sfruttò alcuni frammenti 
					melodici cinesi che riuscì a reperire in una pubblicazione 
					di musiche cinesi e attraverso il carillon che un amico, il 
					barone Fassini di Bagni di Lucca, aveva acquistato in Cina 
					come souvenir. Le quattro melodie tratte 
					dalla pubblicazione sono state impiegate una per la marcia 
					funebre del principe di Persia (atto I, dove i sacerdoti 
					dicono «O gran Koung-tzè» e altre tre per caratterizzare le 
					maschere Ping, Pang e Pong (nel terzetto del II atto, e 
					anche nel III atto). Dal carillon, trasse ancor tre 
					frammenti, utilizzati 
					uno per l’ingresso delle tre maschere (I atto), un altro per 
					la marcia del corteo imperiale (II atto), e il terzo per la 
					luna appena sorta in cielo (I atto). Quest’ultimo frammento 
					è particolare perché riprende la melodia cinese denominata «Mò-Lì-Huà» 
					che significa «Fiore di gelsomino» che verrà ripresa più 
					volte accompagnata dal coro di voci bianche per 
					simboleggiare la purezza di Turandot. Il clima rituale - 
					cerimoniale di alcune situazioni è accennato, come una 
					specie di messaggio subliminale, attraverso armonie 
					gregorianeggianti e perfino con l’inserimento dell’organo 
					nell’inno corale nel finale del II atto. 
					 
					Luciana Distante 
  
					  
					  
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					Note: 
					(1) Carlo Gozzi (Venezia 1720-1806)  
					(2) Martino, Daniele A., L’idillio imperfetto. Sentimenti ed 
					eroine nei libretti per Puccini, in Teoria e storia dei 
					generi letterari. La letteratura in scena. Il teatro del 
					Novecento, a cura di G. Barberi Squarotti, Torino, Tirrenia, 
					1985, pp. 59-78. 
  
					  
					 
					 
  
					  
					  
  
					  
					  
					  
  
					
					  
					  
					  
					
					  
					
					 
					  
					
					
					  
					  
					
					  
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